Pagine di terracotta

di Vito Pinto

Rimandano a memorie di ritualità arcaica, di vita collettiva, di vissuto privato le terrecotte incise che le varie civiltà hanno lasciato, a partire dal quarto millennio a.C., e che la storia scavata ci riconsegna per una ri-costruzione d’identità umana. Ritrovamenti diffusi sulle terre emerse, da quelle tra i fiumi della Mesopotamia sino a quelle affacciate sul Mediterraneo, riferiti a civiltà passate, avvicendatesi lungo i secoli nei vari luoghi, cui hanno affidato tracce sempre più consistenti e importanti della loro presenza. Furono i Sumeri a tracciare i primi di-segni su tavolette d’argilla per raccontare anche del Diluvio universale.
Tavolette di terracotta, quindi, che si fanno strumenti di trasmissione scritta per quella docilità dell’argilla ad essere incisa con segni, glifi, pittogrammi, lettere, alfabeti vari, portatori nella nostra epoca di messaggi, di un vissuto di civiltà passate, tappe determinanti nel viaggio evolutivo dell’uomo. Tavolette che si pongono come ibridi fogli di appunti, unità di immaginari “libri” nell’assemblarsi per omogeneità. Vedasi quelle tavolette che riportano i codici di una ritualità di fede verso l’Ente superiore, qualunque sia stata la sua denominazione.
Ed è una grande suggestione che il materiale più diffuso, più umile come l’argilla si faccia strumento di preghiera, di rito religioso, di collegamento con il divino e, soprattutto, mezzo di comunicazione tra uomini e con la storia.
Era quella che in tempi molto vicini a noi verrà definita “filosofia dell’ascetica” capace di permettere all’artista di elevarsi al di sopra della materia e raggiungere il concetto puro dell’opera da realizzare. Per molto tempo quelle tavolette sono state “libri illeggibili”, per rifarsi a Bruno Munari e al suo “Codice ovvio”, perché “non hanno parole da leggere, ma una storia visiva che si può capire seguendo il filo del discorso visivo”.
Un fil rouge che ha ispirato il concetto del “libro d’artista in ceramica”, in una continuità di materia ed una materializzazione attuale di concetti d’arte, di segni evoluti dall’antica memoria rituale al moderno messaggio di idee ed emozioni. Un obiettivo che può essere raggiunto solo da quel ceramista, o artista che opera in ceramica, che ha raggiunto la capacità di richiamarsi a “un equilibrio raggiunto e posseduto” tra rigore e creatività, ironia e ragione, gioco e funzione, fantasia e metodo.
In questo contesto di eredità nobile si inserisce il lavoro di coloro che hanno realizzato un libro d’artista su supporto di terracotta, un libro non scritto, ma immaginato, realizzato con messaggi intimi dell’artista, sospesi su superfici diverse dalle consuete pagine di carta seguendo arcani tracciati di antiche civiltà. Segni, lettere, elementi di un alfabeto delle emozioni ceramiche, dove la materia è parte integrante di un linguaggio segreto dell’artista. Un libro siffatto non è sfogliabile, supera molti schemi cui siamo abituati, ma può essere letto, interpretato, va gustato, meditato nelle forme, nei segni, nelle cromie, con tutte le variazioni percettive che ogni singolo “lettore” riesce a dare all’opera. Di per sé un libro d’artista sfugge ad ogni canone emotivo pur mantenendo ben saldi i protocolli di realizzazione; di certo è segno di “sapienza e cultura antica”.
Il libro d’artista è un oggetto d’arte che “accetta una forma per indicare una funzione: il ruolo di veicolo di messaggio – scriveva Mirella Bentivoglio – e che questa forma venga, nei casi estremi, trasgredita fa parte del gioco, purché essa sia riconoscibile quel tanto che permette di percepirne visibilmente anche l’intenzione trasgressiva”. Quindi il libro d’artista ceramico è pura libertà espressiva dell’autore, che non ha bisogno più di regole (se non quelle strettamente tecniche), ma solo di fantasia, di immaginazione, di gesti successivi per giungere alla definizione del suo messaggio d’arte. Opere che si fanno libri-non-libri, opere “ibride” dove la certezza è la manualità dell’artista come mezzo di espressione di pensieri ed emozioni dell’anima.
Ecco, quindi, “La grazia spettinata” di Carlo Catuogno, otto minuscole tavolette quadrate in terracotta, per sedici pagine a raccontare, con brevi incisioni e tratti cromatici essenziali in bianco e nero, in vago celeste o grigio, antichi linguaggi, primordiali alfabeti, composizioni pittografiche che si accompagnano a glifi sacri, a richiamo di civiltà mediterranee. L’artista si fa scriba, dotto discepolo di Thot, presso gli egizi divinità della luna, della sapienza e scrittura, della magia e misura del tempo, per raccontare emozioni intime, inconsci legami con un antico, altrui vissuto.
Un percorso che si ritrova anche nelle due tavole a lucide cromie di Giuseppe Facchinello. Lettere in caduta libera, volti interroganti, in meravigliata osservazione, simboli di un personale codice, fanno di quest’opera un libro a scrittura logoiconografica, quasi richiamo ad antichi graffiti camuni. Grande attenzione pone l’artista nella piegatura della sfoglia argillosa, nel taglio sapiente dei contorni, nelle incisioni emozionali, racchiudente un percorso immaginifico e pur tanto aderente al cammino delle culture dell’uomo.
Si affida, Ignazio Collina, alla ruota del tempo senza fine e ad un pesce di mare tirrenico diretto verso quella ruota a corona di un testo inciso sulla piastra, quasi pensiero da diario: “Il libro che non ho scritto, il libro che volevo scrivere, il libro che non scriverò mai”. In contrappunto Matteo De Chiara sottolinea: “Le parole finiscono per assomigliarsi tutte. Io continuo a cercare le mie in modo che gli altri non le riconoscono”. Pensieri in libertà, come quel quarto di terra cotta in bianco e quegli spruzzi in rosso a simbolo di alfabeti cromatici scomposti. Viaggio alla scoperta degli antichi maestri, di insegnamenti di una tradizione remota nella quale bisogna entrare liberi nella mente e nel cuore. Scriveva il peruviano Carlos Castaneda: "Poiché non ho pensieri, vedrò. Poiché non temo nulla, ricorderò me stesso. Distaccato e a mio agio, sfreccerò oltre l’Aquila per essere libero"
Usa il bianco assoluto, Nello Ferrigno, per di-segnare lo spazio di una immaginaria pagina di libro sul quale far confluire, in una semplice scritta, un percorso d’arte, una esperienza spaziata tra le varie correnti artistiche che hanno attraversato gli anni del secondo novecento e nel quale, in vari modi, l’artista si è inserito traendone esperienza. Undici caratteri lineari, schematizzati, per dichiarare il suo “Artist’s Book”, quasi a voler “imprimere alla propria prosa l’accento dell’ovvietà assoluta”, come scriveva Tristan Tzara nel suo “Manifesto Dada” del 1918. A chiusura sono sei matite pastello a punta eretta quasi iride di raccordo con artisti che hanno rappresentato la vivacità d’arte del secolo appena trascorso: dall'espressionismo astratto, alla pop-art e all’op-art.
Sono pagine aperte quelle di Enzo Angiuoni, a denuncia di disordine sociale, guazzabuglio di idee culturali, disorientamenti degli individui, insoddisfazione per quanto si cerca, comunque, di costruire, consci delle avversità che si frappongono e dalle quali non sappiamo come uscirne. Un disordine che l’artista evidenzia con sovrapposizione di colori, con conflittualità di percorsi cromatici con quell’astrattismo caro a Jackson Pollock. Ma lascia, l’artista, anche ampi squarci bianchi, spazi non scritti, dove costruire una speranza futura. Nella “Teogonia” Esiodo scriveva: “Dunque, per primo fu il Chaos, e poi Gaia dall'ampio petto, sede sicura per sempre di tutti gli immortali che tengono le vette dell'Olimpo nevoso, e Tartaro nebbioso nei recessi della terra dalle ampie strade, e poi Eros, il più bello fra gli dèi immortali, che rompe le membra, e di tutti gli dèi e di tutti gli uomini doma nel petto il cuore e il saggio consiglio”.
Ed ecco i fogli accartocciati di Giuseppe Di Lorenzo, nei quali fanno capolino colori tracciati e leggibili quasi di rimando. Pagine scritte, strappate, abbandonate perché non soddisfacenti l’autore. Spruzzi di colore, ampie strisce di rosso e blu, quasi sottolineature di errori di un lavoro iniziato e non completato. Pensieri tracciati, cestinati, rimossi dalla mente, ma fissati sulla pagina d’argilla, recuperati dalla storia che fa tappa in un viaggio d’arte. Pagine tormentate tra le mani, nella pressione delle dita, libro “temporaneamente” sospeso e destinato a quell’immaginario “villaggio del libro” dove niente si dimentica e tutto si recupera. In fondo le parole hanno molta pazienza e ci aspettano.
E se queste parole, in vario modo scritte o rappresentate, sono incise su tavolette di terra-cotta, allora la loro pazienza di attesa è riportata sul registro dell’eternità. L’argilla, con la sua fragilità, rimane sempre il punto di datazione della storia dell’uomo.